Archivi categoria: Articoli

L’importanza del cantare

Poche settimane fa si è concluso il Festival di san Remo, che rappresenta per noi italiani non solo una rassegna di canzoni, ma anche una vetrina per nuovi e consolidati talenti artistici e musicali ed è anche, forse unico nel suo genere in tutto il mondo, un vero e proprio fenomeno sociale e di costume. Dopo il Festival, le radio passano le canzoni presentate durante le serate che poi ascoltiamo distrattamente e ripetutamente fino a farle diventare una sorta di colonna sonora del nostro quotidiano. Eppure, pur immersi in questa musica di sottofondo, mi sembra che il gusto di cantare, o di canticchiare, il motivetto di una canzone, non ci sia più. Già lo notava lo scrittore Mario Rigoni Stern, quando, nel 2008, intervistato per un giornale, diceva “cinquant’anni fa si sentiva la gente cantare. Cantava il falegname, il contadino, l’operaio, quello che va in bicicletta, il panettiere. Oggi hanno smesso. La gente non canta e non racconta più.” Me ne sono accorta anch’io: al mercato per esempio è difficile sentire qualche venditore cantare o richiamare i clienti come si faceva una volta, presentando la merce esposta “decantandola”, appunto, cioè descrivendone le virtù a voce alta, magari proprio cantando. Sentire qualcuno che va al lavoro cantando, o che lavora cantando, è diventato ormai davvero una rarità: forse perchè la nostra società è diventata così triste da non essere più capace di cantare? Il poeta sufi Mewlana Rumi diceva ” Io voglio cantare come cantano gli uccelli , senza preoccuparmi, senza sapere che cosa pensano gli altri di me che canto”, richiamando in questi pochi versi sia la spensieratezza sia la capacità naturale di esprimersi attraverso la voce, la musica e la poesia, ma anche la libertà di poterlo fare, senza preoccuparsi del giudizio altrui. Sono parole che fanno riflettere, in una società dove ormai l’atto del cantare sembra non essere più qualcosa che ci viene spontaneo fare. Eppure le “canzonette”, per parafrasare il titolo di un brano di Edoardo Bennato, non è vero che “sono solo canzonette”, perchè una canzone  nel breve tempo di circa quattro minuti può dire tantissime cose. Può parlarci di amore, di felicità, può dire meglio di qualsiasi altro mezzo una protesta, una denuncia, l’espressione più immediata di un valore condiviso. Il critico musicale Mario Leone afferma che ogni popolo ha i suoi cantori, e questi cantori hanno raccontato anime e vite diverse, dalle canzoni più impegnate, perfino di contenuto politico, alle canzoni che venivano intonate dai soldati nelle guerre come i canti alpini, che ancora ci emozionano così tanto. Mario Leone dice ” I canti sono i loro autori ma anche di più: sono il cuore del popolo a cui i cantautori appartengono. Nasce un popolo, nascono dei canti che lo raccontano.” Cantare una canzone è importantissimo ed è anche un atto che assolve delle funzioni importanti: pensiamo alla ninna – nanna, è un canto che è determinante per il nostro sviluppo affettivo, ci tranquillizza da piccoli, ci predispone all’abbandonarci al sonno ed è alla base della nostra capacità di sintonizzazione affettiva. Il canto è presente in tutti i riti li connessi alla vita ed alla morte in tutte le tradizioni di tutte le culture presenti sul nostro pianeta. Ma, oltre all’importanza sociale ed antropologica del canto, il cantare in sè, cantare come descritto da Rumi, senza pretese di performance ma solo per ritrovare il piacere di farlo,  presenta degli effetti fisiologici positivi straordinari. Cantare ci fa bene perchè aumenta i livelli di endorfina: di solito dopo aver cantato ci sentiamo bene ; se siamo con degli amici e cantiamo insieme , per esempio in un coro, si favorisce il legame di gruppo, e questo favorisce successivamente nel singolo individuo il senso di appartenenza, la sensazione di non essere solo. Cantare ci fa bene perchè impariamo ad ascoltare la nostra voce, ed attraverso questo, ad ascoltarci davvero, perchè usare la voce produce un aumento della consapevolezza corporea e vocale.  Cantare trasforma l’ansia perchè ci aiuta o a distrarci dalle nostre sensazioni angosciate o perchè, ancor meglio, ci aiuta ad esprimere questa emozione  in un modo in cui ci sentiamo capaci, acquisendo così un potere di controllo su di essa. Le persone affette da morbo di Parkinson  subiscono nel decorso della malattia delle penose limitazioni nel parlare e spesso non riescono più a farsi capire dagli altri riducendo così le possibiltà di comunicare, sviluppando quindi anche una sindrome depressiva. La logopedista Lorraine Ramig ha ideato la tecnica LSTV-Loud che utilizza il canto come strumento terapeutico rispetto a questa difficoltà di articolazione della voce  tipica della malattia parkinsoniana. L’atto del cantare è di fatto una respirazione guidata, e respirare è alla base di tutte le tecniche di rilassamento. Uno studio pubblicato da  neuroscienziati dell’Università di Gothenburg in Svezia ha dimostrato che cantare coinvolge sia il battito cardiaco sia la respirazione e la postura, e l’accoppiamento di questi fattori provoca fisiologicamente sia un effetto calmante che benefici sulle funzioni cardiovascolari. Del resto, come si dice, cantare fa bene al cuore.

Dr.ssa Silvia Nadalini, psicologa psicoterapeuta, membro della SIMP Sezione di Rovigo

 

L’arte della metafora e l’arte di riaggiustare

La  metafora è quello che viene definito una “figura retorica”, un espediente dell’arte del comunicare scritto o verbale, con cui chi sta parlando con noi opera un  trasferimento di significato che consiste nel sostituire al termine che normalmente occuperebbe il posto nella frase, un altro termine, la cui “essenza” o funzione va a sovrapporsi a quella del termine originario creando, così, immagini di forte carica espressiva. Nella metafora diamo una immagine immediata che evoca spontaneamente il senso che desideriamo dare in riferimento al contesto. Per esempio, dire “l’alba di un nuovo inizio”, per indicare che qualcosa di nuovo sta nascendo; oppure “oggi mi sento uno straccio”, espressione che spesso ci capita di ascoltare in varianti più o meno tristi e colorite.  La metafora è una figura retorica molto creativa, saperle costruire, anche se spesso ci arrivano in modo spontaneo, è un segnale di buon funzionamento sia delle nostre facoltà intellettive più raffinate, sia, nell’ambito di una relazione, terapeutica o no, di un buon affiatamento, perchè implica il saper riconoscere subito un sistema di significati e contesti condivisi, quindi una certa “confidenza”. L’uso della metafora  è collegato alla nostra capacità di creare delle connessioni di senso dal potere evocativo e comunicativo straordinario, delle vere e proprie immagini viventi che ci rendono in modo immediato qualcosa che spesso sarebbe davvero difficile esprimere o spiegare compiutamente e precisamente. La metafora fà sì che concetti complicati o che non riusciamo a descrivere “arrivino” al nostro interlocutore in modo subitaneo, come delle intuizioni illuminanti su quanto vogliamo esprimere. Il filosofo francese Paul Ricoeur definisce la metafora una “scintilla di senso” e l’enunciato metaforico un “ poema in miniatura”. Secondo Ricoeur la metafora è un evento discorsivo  capace di  ri-figurare la realtà e di scoprire dimensioni nascoste dell’esperienza umana, che trasformano la nostra visione del mondo attraverso lo slancio dell’immaginazione, della creatività, della emozione. Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi , fu un grande ideatore ed  utilizzatore di metafore al fine di far comprendere teorie complesse che tentavano di concettualizzare idee assolutamente innovative per l’epoca. Per esempio, nel libro “Introduzione alla psicoanalisi”, così si esprime: “L’intenzione degli sforzi terapeutici della psicoanalisi è rafforzare l’Io, ampliarne il campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione così che possa annettersi nuove zone l’Es. Là dove c’è l’Es, là deve subentrare l’Io. Questa è un’opera della civiltà, come il prosciugamento dello Zuidersee”. Lo Zuidersee era un mare che nel 1916 sommerse, inondandola tragicamente, una vasta zona dell’Olanda. Per evitare che ciò accadesse ancora, fu costruita una diga per  contenere lo Zuidersee, che da allora si chiama Lago d’Ijssel, che significa “Mare Interno”. In questo grande lago furono poi creati dei polder, cioè, delle terre coltivate, e sorge un monumento su sui è scritto “Un popolo che vive costruisce il suo futuro”. Tutto questo è una metafora: la nostra energia incontrollabile ed inconscia, l’Es, che ci travolge e ci spaventa come lo Zuidersee, si può dirigere e contenere verso il “dare frutto”, i polder, cioè, la consapevolezza ( quello che Freud chiama “Io”) e dunque un essere umano che vive davvero è chi coltiva e costruisce sè stesso ed il suo futuro. In un’altra celebre metafora, Freud spiega come è strutturata la nostra psiche. Paragona la mente ad un iceberg: l’attività cosciente (tutte le riflessioni che facciamo, delle quali siamo pienamente consapevoli), rappresenta la punta di un  iceberg (conscio).  La parte più rilevante della nostra attività psichica si svolge però in una dimensione sommersa, non visibile, non immediatamente accessibile, inconsapevole (inconscio). Nella porzione dell’iceberg sulla superficie dell’acqua si collocano i pensieri normalmente non disponibili alla coscienza, ma che possono essere richiamati tramite un atto di volontà (preconscio). Durante una terapia, accade  che tanto i nostri pazienti quanto noi terapeuti utilizziamo metafore. Quando succede a me, di accorgermi che sto usando una metafora efficace o che ascolto  una metafora di un paziente, accolgo questo momento con grande attenzione perchè è un indicatore delle nuove connessioni che stiamo costruendo per accedere all’energia psichica trasformativa. Qualche tempo fa, una paziente mi ha detto, verso la fine del nostro cammino terapeutico, di sentirsi un “kintsugi”. Questa metafora  mi ha colpito moltissimo: il Kintsugi è la tecnica giapponese che ripara gli oggetti  in ceramica, in genere vasellame, usando l’oro  per saldare assieme i frammenti. Il Kintsugi così trasforma qualcosa che è rotto, frammentato, in qualcosa di prezioso, senza però nasconderne, anzi, valorizzandone, le tracce della rottura, metafora del dolore. La metafora utilizzata dalla mia paziente meglio di qualsiasi spiegazione esprime l’idea, condivisa dal Kintsugi e dalla pratica terapeutica, che da una ferita e dalla inevitabile imperfezione della riparazione, possa nascere una forma unica, di ancor maggiore bellezza e ricchezza interiore ed esteriore.

Dr.ssa Silvia Nadalini, psicologa psicoterapeuta, membro della SIMP sezione di Rovigo

Le sabbie mobili della vita e la volontà di tornare indietro

“Ho sognato che ero in Francia a Mont Saint-Michel, un luogo incantevole, magico e misterioso. C’era l’alta marea ed, aspettando che finisse, osservavo il mare mentre si ritirava anche per alcuni chilometri. Ho deciso di intraprendere una bella passeggiata al tramonto su quella spiaggia silenziosa che la natura aveva creato. Ero immersa nei miei pensieri e soprattutto su una decisione che dovevo prendere e che invece stavo rimandando da ormai troppo tempo: interrompere la relazione con mio marito. Era una scelta molto difficile, che mi tormentava da alcuni anni , nonostante i miei ormai innumerevoli tradimenti. Sembrava che una parte di me avesse già preso una decisione definitiva, ma invece la parte di me più razionale e morale mi metteva sul tavolo degli imputati con terribili sensi di colpa. Ero spaccata in due e qualsiasi direzione avessi preso, l’altra parte di me si opponeva. Sono sempre stata cresciuta ed educata in una famiglia religiosa e moralmente retta e non avrei mai creduto di comportarmi in tale modo e soprattutto vivere continuamente nella bugia e falsità. Eppure mio marito è un uomo buono ed impeccabile, che non mi fa mai mancare niente, e se devo portargli una critica è che lavora troppo, ma, essendo sempre innamorato, mi riempie di attenzioni e di sorprese. Mi chiedo continuamente perché mi comporto in tale modo inaccettabile ed inspiegabile? E mentre ero rapita da tali quesiti non mi ero accorta che, camminando, ero entrata in una zona pericolosa dove c’era più acqua che sabbia e che lentamente stavo sprofondando nelle sabbie mobili! All’inizio non ero preoccupata e cercavo di muovere i piedi ritmicamente per uscire, ma il mio corpo lo sentivo sprofondare sempre di più. Ho iniziato ad agitarmi ed urlare per chiedere aiuto, ma non c’era nessuno! Ho pensato che dovevo cercare un appiglio, ricordando le scena di qualche film, ma non c’era niente intorno a me, nemmeno un ramoscello, un sasso, un pezzo di legno trascinato dal mare, nulla di niente, ero sola con me stessa ed  i miei pensieri nelle sabbie mobili!”                                                                       Spesso quando pensiamo troppo rimuginando sempre con i nostri inseparabili pensieri ci sentiamo come se fossimo impantanati ed ingabbiati nelle sabbie mobili e più pensiamo e più sprofondiamo sempre più giù! Capita che ci agitiamo, arriva l’ansia, ed inevitabilmente scendiamo sempre più in basso! Se abbiamo fortuna possiamo dall’esterno avere un appoggio, un aiuto, ma è una soluzione momentanea, cioè possiamo in quella situazione salvarci, ma se non cambiamo mentalità e visione di prospettiva un’altra sabbia mobile è dietro l’angolo magari nella spiaggia dell’isola olandese  di Texel. La prima regola per salvarsi è liberarsi di tutto quello che ci rende più pesante per affondare ulteriormente, non solo dal punto di vista materiale, ma anche mentale. Immersi nei pensieri diventiamo pesanti! La seconda regola è fermarsi ed iniziare a muoversi lentamente oppure sarebbe consigliabile stare fermi e rilassati, respirando profondamente. In questo modo oltre a ritornare calmi ti permetterà di galleggiare, infatti se i tuoi polmoni sono pieni di aria sei più leggero e ti sarà impossibile sprofondare. Vorrei tranquillizzarti… non si muore nelle sabbie mobili! Ma la regola più importante è quella di iniziare a ritornare indietro come se dovessimo risalire delle scale dietro di noi e lentamente sentirete sotto i vostri piedi che il suolo sta diventando meno cedevole finché lo sentirete sempre più solido. E così sarete finalmente liberi! Non continuare nella spirale dei tuoi pensieri che ti fanno sempre più sprofondare, fermati e come una moviola torna indietro recuperando lati di te creativi e fantasiosi, saranno quelli i tuoi appigli nella vita quando sarai in difficoltà!

Dott Renato De Rita, medico e psicoterapeuta, coordinatore della sezione Simp (Società Italiana di Medicina Psicosomatica) e presidente dell’Associazione Sociale Culturale Salute Psicosomatica

Dall’epoca delle passioni tristi all’epoca della creazione condivisa

Miguel Benasayag  e Gerard Schmidt sono rispettivamente uno psicoanalista che vive e lavora a Parigi ed  un professore di psichiatria dell’Università di Rheims, e sono anche gli autori un libro bellissimo, l’ “Epoca delle passioni tristi”. Sono rimasta colpita dal titolo di questo libro: l’epoca delle passioni tristi è la nostra, e questa definizione non nasce da uno studio teorico o sociologico, ma dall’osservazione diretta di casi clinici, di incontri, di riflessioni personali e professionali degli autori. Non solo la preparazione accademica, ma la stessa vicenda umana di  Miguel Benasayang in particolare lo rende un osservatore autorevole ed autentico della nostra epoca e delle sue “passioni”. Nato in Argentina nel 1953, giovane studente universitario fu imprigionato e torturato durante gli anni della dittatura militare. Riuscì avventurosamente a lasciare l’Argentina ed ultimare gli studi a Parigi, nel 1987, dove tutt’ora vive e lavora come psicoanalista occupandosi soprattutto di problemi dell’infanzia e dell’adolescenza. Insicurezza, ansia, rabbia, risentimento, inquietudine, un sentimento di diffusa frustrazione ed insoddisfazione, la tristezza, la solitudine,  sono le “passioni tristi” che caratterizzano le richieste di aiuto dei nostri pazienti e molto spesso l’origine di queste sofferenze non è psicopatologica. Sono emozioni e sentimenti che riflettono e svelano la tristezza diffusa che caratterizza la nostra società contemporanea pervasa da un sentimento di precarietà. Secondo Benasayang e Schmidt, la crisi ed il disagio che sentiamo a volte viene amplificato perchè riflette in noi una crisi ed un disagio più vasto, quello del mondo e dell’epoca in cui viviamo. Secondo Benasayang e Schmidt, nella nostra epoca il segno del futuro è passato da “più” a “meno”: dal “futuro promessa”, cioè, dalla speranza, al “futuro minaccia”, cioè, alla mancanza di fiducia nel futuro. Semplificando il pensiero di questi autori, in un soggetto sano la psiche è naturalmente aperta al futuro, cioè, è fiduciosa; ma in una società come la nostra il futuro viene percepito come minaccioso e quindi si offre a noi come incertezza. Così,  «il terribile è già accaduto», perché le iniziative si spengono, le speranze appaiono vuote, l’ energia vitale implode. Ne vediamo le conseguenze perfino nel versante fisiologico, quando siamo demotivati,  inattivi, sedentari, sempre stanchi; quando per esempio mangiamo male, del cibo spazzatura trangugiato in fretta, senza prenderci il tempo di assaporare nulla. Il ricorso allo stordimento, per non sentire le nostre “passioni tristi”, passa dall’impiego incongruo delle tecnologie, dato che la “realtà virtuale” diventa più desiderabile di una realtà disperata, alle dipendenze da videogiochi, alcool, sostanze, gioco. Benasayang e Schmidt si occupano prevalentemente di bambini ed adolescenti: proprio i bambini nella nostra epoca sono  purtroppo portatori inconsapevoli di questa inquietudine. Moltissimi disagi scolastici dei bambini e degli adolescenti in sede diagnostica si rivelano non essere affatto problemi di apprendimento, ma un comportamento che segnala un malessere che è lo specchio spesso di una disarmonia familiare, o di un disagio portato da uno o da entrambi i genitori, di cui il bambino o il ragazzo si fa portavoce  chiedendo di essere ascoltato da adulti maturi e capaci di infondere senso e speranza. Mai come nella nostra epoca sono proprio i bambini e gli adolescenti a subire oppure a  manifestare le ferite ed il malessere di una società a volte perfino violenta, che non ha spazio per i più indifesi. E’ possibile liberarsi o dominare le nostre “passioni tristi” : dobbiamo ripartire dal nostro senso di responsabilità  verso noi stessi con il coraggio  di essere portavoce, di chiedere di essere ascoltati  ed essere al tempo stesso capaci di ascolto. Abbandonare la solitudine come passione triste significa  favorire la costruzione di legami affettivi e di solidarietà concrete, capaci di spingere le persone fuori dall’ isolamento nel quale tendiamo a rinchiuderci anche, per esempio, attraverso l’uso eccessivo e quindi  la dipendenza da internet , dalla televisione, dai social networks. Miguel Benasayang è anche autore del libro “Oltre le passioni tristi”. Qui, incontrando i suoi pazienti grandi e piccoli , riflette su come sia possibile leggere in filigrana, dietro  questo scenario desolato, le potenzialità inespresse di ciascuno di noi . Tutto ciò che sembra dividerci ed isolarci, è invece quello che, se viene visto,  reso esplicito,  espresso con creatività, trasforma le catene della solitudine in legami interpersonali e  ci rende prossimi e necessari gli uni agli altri, in una prospettiva di cura ed attenzione reciproca. L’epoca delle passioni tristi, il nostro presente, si rivela così essere un tempo carico di speranza e fiducia: il tempo della creazione condivisa.

Dr.ssa Silvia Nadalini, Psicologa Psicoterapeuta, socia della SIMP sezione di Rovigo

 

 

 

 

Il presepio come rappresentazione della rinascita interiore

In questi giorni di feste le nostre città, le chiese e le nostre case si adornano dei simboli del Natale, tra cui per tradizione e cultura spicca quello del presepio. Il presepio è una rappresentazione della notte Santa. Viene attribuita a san Francesco di Assisi l’ideazione e l’allestimento del primo presepio, a Greccio in Umbria, nella notte di Natale del 1223. Francesco era appena tornato da un pellegrinaggio a Betlemme ed era desideroso di rievocare l’emozione provata nel visitare i luoghi della nascita di Gesù condividendola con gli abitanti del borgo umbro in cui si trovava. Fu la prima rappresentazione sacra, descritta da Bonaventura da Bagnoregio  nella Leggenda Maggiore, e dipinta da Giotto in uno degli affreschi che possiamo ammirare nella Basilica Superiore di Assisi. Il primo presepio fu ideato da san Francesco con personaggi tratti dalla popolazione di Greccio, una rappresentazione sacra con degli attori , fu insomma quello che noi oggi chiamiamo un “presepie vivente”, e solo successivamente allestire il presepio diventò un rito popolare dove si usavano delle statuine. E così, dal paesaggio  e dai pastori beduini della Palestina di 2017 anni fa, le statuine del presepio arrivano ad oggi indossando i panni dei luoghi e del tempo in cui il presepio viene preparato in attesa della notte in cui si aggiungerà l’ultima satuina, la più importante, quella del Bambino sulla mangiatoia. Le statuine del presepio esercitano su grandi e bambini un fascino sottile fatto di tenerezza e curiosità. Ognuna di loro racconta una storia. Nei presepi tradizionali, sono presenti i pastori con le pecore, ma anche, i lavori dell’artigianato locale: il fornaio, il fabbro, il falegname, l’oste, la fioraia, il contadino,il pescatore, il vasaio, il muratore; troviamo perfino il calzolaio, il sarto, il fruttivendolo, il cacciatore. Ognuno è presente con il dono del suo lavoro. Ci sono poi soldati, suonatori di zampogna, chitarra e flauto; ci sono perfino delle statuine caratteristiche e curiose. Tra queste, c’è la Zingarella di origine siciliana, che Ambrogio Sparagna, studioso di poesie e canti popolari,  ci ricorda mentre predice il futuro alla Madonna in una filastrocca che racconta come la Zingarella offrirà  rifugio nel suo carrozzone  ai “tre meschini poveri e pellegrini” in fuga verso l’Egitto.  C’è il Benino, un pastorello che, nonostante gli angeli che cantano e la luce della Cometa, si riaddormenta sfinito e sorridente ai piedi della grotta. C’è una statuina della tradizione bolognese, che si chiama “Meraviglia”: è una giovinetta felice che agita le braccia, forse balla per la gioia , che trova in “Festoso”, il suo omologo presente nei presepi toscani. C’è l’oste ciccione e l’ubriaco con il fiasco in mano. C’è un personaggio curiosissimo, si chiama  “Caganer”, statuina immancabile nella tradizione catalana che si mette nel presepio in un punto nascosto: è un omino buffo colto in fallo mentre sta defecando, che fa ridere i bambini, e non solo i bambini. Nei presepi napoletani poi compaiono le statuine dei personaggi dell’attualità, calciatori famosi, personaggi della tv, attori, attrici, politici. Chi di noi ha dei bambini in casa, sa che prima o poi nel presepio appariranno anche macchinine, astronavi, fatine o improbabili peluche. Il presepio esercita sempre su di noi una grande attrazione , al di là del nostro personale credo religioso. Dove c’è un presepe, c’è qualcuno fermo a guardarlo, contemplarlo, ammirarlo; ci fermiamo in silenzio e cerchiamo il nostro personaggio preferito come se cercassimo un amico. Il presepio è  una rappresentazione, la rappresentazione della nascita di un Bambino: questa nascita avviene nel freddo di una notte d’inverno, quando il buio ed silenzio invadono la terra. E’ un Bambino portatore di luce e di speranza, un bambino atteso. Per questo motivo, oltre il significato devozionale e religioso, possiamo interpretare il presepio anche come una rappresentazione simbolica di come una rinnovata fiducia, di come una nuova  speranza possa rientrare nella nostra vita nei momenti più freddi e bui della nostra esistenza con la potenza di una nascita, che è la nostra stessa rinascita interiore. A questa rinascita partecipano tutti gli aspetti del nostro essere e della nostra quotidianità, nessuno escluso : sono le “statuine del presepio”. E fra poco  tre statuine si aggiungeranno al nostro presepe: sono i Re Magi, figure misteriose ed esotiche, che portano al Bambino Gesù i doni dei re, i più preziosi. I re Magi che giungono dall’ Oriente e dall’Africa, portano anche nelle nostre case in dono il sapere, la cultura e la conoscenza che arrivano da paesi lontani, tradizioni diverse dalle nostre, e forse la loro presenza ci suggerisce di attendere con curiosità e apertura tutto ciò che ci sembra così diverso e lontano dalle nostre abitudini.

Dr.ssa Silvia Nadalini, psicologa psicoterapeuta, membro della SIMP Sezione di Rovigo

 

Il mal di schiena

Nella nostra società c’è una nuova “epidemia”, un sintomo in crescente aumento: la lombalgia o mal di schiena. Le previsioni sono, che oltre l’80% delle persone comprese fra i 30 ed i 60 anni di età nell’arco della propria esistenza soffrirà di questo disturbo. La lombalgia ( dal greco alghia, dolore ) è un sintomo nella regione posteriore del tronco ed è la punta dell’iceberg di una patologia che è sommersa. I “sacri lombi” vengono maggiormente colpiti, chiediamoci il perché e scopriamone il senso. La colonna vertebrale è l’asse portante del corpo e fare sforzi eccessivi sia dal punto di vista fisico che psicologico può gravare su questa parte. La zona lombare collegata al bacino ed alle gambe è anche simbolicamente in stretta connessione con il mondo delle pulsioni e dell’istinto, infatti il bacino è la sede dell’intestino e degli organi della sessualità, mentre gli arti inferiori sono utili nella deambulazione e nell’andare dove si vuole liberamente. Ecco che il cosiddetto “colpo della strega” potrebbe essere visto anche come un conflitto interiore fra la nostra parte razionale, che per il quieto vivere ci imporrebbe a non prendere posizione o decisioni, ed il nostro lato istintivo che invece ci spingerebbe a fuggire da situazioni esistenziali, sessuali, lavorative, ecc. che non ci fanno stare bene. Ma vediamo insieme che tipo di personalità ha chi soffre più frequentemente di tali disturbi lombari. Di solito è una persona con una grande carica istintuale e creativa, sia dal punto di vista sessuale che da quello dell’iniziativa personale, avendo determinazione nel perseguire e raggiungere gli obiettivi con grandi slanci nella loro realizzazione. Ma questo grande potenziale “energetico” non riesce ad esprimersi per questa conflittualità interiore dovuta ad una rigidità o coerenza morale, che trova spesso le sue radici in un’educazione o in una atmosfera famigliare esigente e inflessibile. E’, per esempio, il caso di Marino, ragazzo trentenne libero professionista, che reprime le proprie fantasie sessuali, in nome di una sua morale, avendo una infatuazione per una sua collega d’ufficio. Lui, di solito, reprime i propri slanci emotivi, perché crede che una personalità tutta di un pezzo debba tenere “tutto dentro”. Invece, decide di lasciarsi andare invitandola a cena e, per il fatto che lei sia più “vecchia” di lui, il suo Super Io lo blocca proprio poche ore prima della sognata uscita con un blocco lombare! Oppure il caso di Francesca, impiegata modello, che pretende molto da se stessa e pur di raggiungere certi obiettivi e dimostrare di essere “tosta”, come si definisce, si forza fino al limite delle sue capacità, ignorando i propri reali desideri e bisogni, che spesso sono opposti a quello che si sta facendo. E tutto questo sforzo è solo per il fatto di non essere vista come una persona “senza spina dorsale”! Il sintomo diventa ambivalente: chi credeva di essere tutto d’un pezzo è costretto a piegarsi, ma nello stesso tempo ha trovato l’alibi per non doverlo essere, mentre chi aveva il desiderio di trasgredire seguendo i propri bisogni e desideri sessuali ed invece contrastati dalla propria coscienza, rinuncia avendosi trovato l’alibi per non affrontare la situazione. “Se non avessi la lombalgia tutto andrebbe perfettamente”, è una frase che spesso si dice chi soffre di tale sintomo. Quindi il mal di schiena, dal punto di vista psicosomatico, diventa un paravento dietro al quale nascondersi e se non c’è consapevolezza del conflitto interiore potrebbe trasformarsi in cronico. Solo con la presa di coscienza dei nostri blocchi emotivi possiamo risolverli in un altro modo. Se invece non cambiamo nulla nella nostra vita ignorando i messaggi, che arrivano dal nostro corpo, andremo incontro ad infelicità, insoddisfazione, malinconia e depressione.. E’ quindi inutile continuare con un braccio di ferro con noi stessi persistendo nella propria rigidità solamente per non arrendersi e seguire le propria natura, il proprio viaggio.

Dott Renato De Rita, medico e psicoterapeuta, coordinatore della sezione di Rovigo della Simp (Società Italiana di Medicina Psicosomatica) e presidente dell’Associazione Sociale Culturale Salute Psicosomatica

La fibromialgia

“Buon giorno dottore, lei è la mia ultima spiaggia! Da circa tre anni ho iniziato a soffrire di dolori alle braccia, alle gambe ed alla schiena. Sono algie interne! I dolori sono progressivamente peggiorati ed ha compromesso anche il sonno. Ho effettuato tutti gli esami ematochimici previsti dallo specialista reumatologo, perché la prima diagnosi sospetta  era stata di artrite reumatoide. Ma tutti gli esami erano nella norma e non c’era infiammazione articolare. Quindi si presume che sia fibromialgia.” Il terapeuta: “Si ricorda, quando sono iniziati i sintomi, che tipo di periodo era nella sua vita?” La paziente: “Mi sono laureata in medicina due anni fa e devo ammettere che sono stati anni di sacrifici, in effetti sono arrivata alla fine stremata! E poi a livello sentimentale il mio ragazzo in quel periodo mi ha lasciata, perché secondo lui pensavo solo allo studio. Ma lei pensa che tutto questo stress si sia trasformato in questa malattia?” Il terapeuta: “Non sono un indovino, ma potremmo fare delle considerazioni insieme. Forse il corpo sta parlando ed usa il suo linguaggio. Secondo lei se il suo corpo le potesse scrivere una lettera, cosa le scriverebbe?” La paziente rimane sorpresa di questo viraggio nella comunicazione ed aggiunge: “Ma non saprei, è difficile immaginare una tale bizzarra epistola. Mi dispiace dottore ma non ci riesco.” Il terapeuta: “Non si preoccupi. Provi durante la prossima settimana a scrivere quello che le viene, però mi raccomando tutto deve fluire senza sforzo in maniera spontanea.” Le sedute seguenti si susseguono senza troppi cambiamenti e miglioramenti. Il terapeuta inserisce all’interno delle sedute uno spazio di rilassamento a focalizzazione corporea per aumentare la consapevolezza della presenza del corpo ed anche tecniche immaginative per stimolare l’area immaginativa interiore. Dopo alcune sedute la paziente finalmente dichiara: “Non ho mai avuto molta immaginazione, mi considero una ragazza molto pratica e concreta quindi l’esercizio che mi aveva dato mi è stato particolarmente difficile, ma negli ultimi tempi con l’aiuto delle tecniche di rilassamento, che mi ha insegnato, una porta si è aperta dentro di me e sono uscite immagini per me sorprendenti.” Il terapeuta: “ Coraggio, mi dica cosa ha scritto.” La paziente, arrossendo un po’, inizia a leggere quello che aveva scritto sulla sua agenda. “Cara, sono il corpo che ti parla. E’ da tanto tempo che mi hai dimenticato! Ti ricordi quando facevamo insieme delle lunghe passeggiate, eri instancabile soprattutto in montagna. Ricordi di quando da piccola amavi ballare danza classica e trascorrevi interi pomeriggi a volteggiare nella tua stanza. Ricordi quando facevi l’amore tutti i giorni con il tuo ragazzo e quando ti ha lasciato non hai versato una lacrima? Probabilmente tutto il tuo dolore e la tua disperazione è ancora dentro di te ed invece di farla fluire all’esterno l’hai anestetizzata buttandoti a capofitto nello studio. Ricordi quando eri felice e non eri consapevole e di quante cose ti sei dimenticata e soprattutto di attività che ti facevano stare bene!…” Già troppo spesso dimentichiamo che quando siamo felici allontaniamo la malattia e lo stress. Infatti il cervello produce le endorfine, sostanze prodotte dal cervello nel lobo anteriore dell’ipofisi, nei surreni ed in alcuni tratti dell’apparato digerente, classificabili come neurotrasmettitori con proprietà antidolorifiche simili a quelle della morfina e dell’oppio, aumentano le funzioni del sistema immunitario, una riduzione del rischio delle malattie cardiocircolatorie, combattono lo stress diminuendo il disagio bloccando la sensazione di dolore e di sofferenza stimolando i centri del piacere procurando euforia e stato di benessere. Anche una forte emozione come l’orgasmo rilascia endorfine ed anche l’ingestione di cibi come la cioccolata, il peperoncino ed alimenti dolci ricchi di carboidrati. Si chiama “runner’s high” (sballo del corridore) quando c’è un grande rilascio di endorfine da parte del corpo in una intensa attività sportiva aerobica (almeno trenta minuti) tipo culturismo, la maratona ed il ciclismo. Anche ascoltare la musica che ci piace alza la produzione di questo ormone del benessere. Anche il ballo ed il contatto fisico, con le persone che vogliamo bene, oppure con il nostro animale amico domestico con baci, abbracci e carezze e coccole rilasciano endorfine. E sorridere è un vero toccasana per la salute e l’umore diminuendo lo stress ed il rischio di ictus aumentando la fiducia e l’autostima in noi stessi. Il profumo di lavanda, di vaniglia e la meditazione aiuta ad essere felici. Chi soffre di insonnia può essere aiutato mettendo qualche goccia di lavanda sul cuscino.

Quindi invece di assumere alcol, droghe e farmaci, perché non iniziamo una educazione per la felicità? Non c’è niente da cercare fuori, è già tutto dentro di noi!

Dott Renato De Rita, medico e psicoterapeuta, coordinatore della sezione di Rovigo della Simp (Società Italiana di Medicina Psicosomatica) e presidente dell’Associazione Culturale Salute Psicosomatica